作詞 : Blasi Fernando
作曲 : Blasi Fernando
Tratturi e masserie dell’Appia Antica
Faccio sempre lo stesso percorso da anni e non mi an-
noio mai. Parto da casa mia e mi dirigo a nord-est, verso
il mare, seguendo vecchi tratturi ricamati intorno all’ap-
pia antica, la via che portava i romani a costantinopoli e
che connette una miriade di masserie imponenti e auste-
re, dove gli ulivi soffocano le memorie di quei tempi vivi
e produttivi dal sapore bizantino. Qui i miei allenamenti
hanno un senso.
Strade antiche costrette da muretti a secco e protette
da una vegetazione che le trasformano in veri e propri
tunnel, a volte rassicuranti e talvolta inquietanti. Strade
volute dalle vigne e dagli ulivi. Strade colorate dal rosso
della terra arsa e dal bianco delle rocce calcaree. Strade
medioevali, un tempo trafficate da vecchi carri colorati
trainati da muli appesantiti dal carico di vino o di olio,
mossi da due enormi ruote che limavano lunghi solchi
paralleli su quelle rocce che osavano puntare al cielo.
Proprio a qualche chilometro dalla costa, tra masse-
ria monacelli e torre Giampaolo, c’è una stradina che
percorre alcune decine di metri tra rocce affioranti. mo-
stra segni antichi scavati dalle ruote dei carri, profondi
più di mezzo metro, che come solchi lisci e affusolati si
intersecano tra loro, simili a scambi di binari o a enor-
mi graffi generati dalle unghie di un gigante. Sono un
monumento alla perenne attività corrosiva della nostra
specie sulla terra, e in questi momenti è disumano rico-
noscersi umani.
Ecco perché amo percorrere queste strade: perché
segnano la mia ricerca di quel che non ho più e che pur-
troppo mi sfugge, lasciando spazio al maledetto nodo
alla gola.
Non so se al mondo ci sia un’“università della moun-
tain bike”, ma se esistesse sarei tra gli studenti più de-
diti e meritevoli. Passo il mio tempo a pensare alla bici,
ai suoi ingranaggi, alle tecniche per ottimizzare i miei
sforzi, alle geometrie utilizzate per concepire i telai o
alle leghe usate per ottenere componenti rigidi e leggeri.
Non è facile gestire tutti questi dati. Ho dovuto col-
mare le mie lacune in chimica e fisica imparando a
conoscere le caratteristiche dei vari metalli e restando
affascinato dal titanio, un metallo particolare che con-
sente di costruire telai indistruttibili ma elastici, ideali
per la mountain bike destinata a percorsi sconnessi e
impervi che mettono a dura prova le ossa del biker. ma
il titanio presenta un piccolo problema: il costo proi-
bitivo! un telaio può costare come un maxi scooter.
Sì, avete capito bene, il solo telaio composto da appe-
na otto tubi può costare intorno ai tremila euro e poi
bisogna aggiungerci anche la componentistica: ruote,
trasmissione, cambio anteriore e posteriore, sella, ma-
nubrio, freni, leveraggi e forcella ammortizzata, che
tradotti in euro possono superare tranquillamente al-
tri duemila euro.
No, il titanio non fa per me. E così, nel dicembre del
’99, approfittando di una svendita totale in un negozio
di lecce decido di comprare un telaio in alluminio da
ottocentomila lire, per poi acquistare su internet la com-
ponentistica che sognavo, partendo da una forcella am-
mortizzata leggera e performante, e via via aggiungendo
le ruote e il kit della trasmissione composto da pedali,
guarnitura, cambio anteriore e posteriore, catena e moz-
zi, cioè quegli ingranaggi fissati sulla ruota posteriore.
il resto degli acquisti lo completo nei negozi sparsi nel
Salento spingendomi sino a taurisano in autostop, dove
incontro un meccanico doc! un ometto sulla sessanti-
na, che si accorge subito del mio magro portafoglio e
mi propone materiale usato ma in ottimo stato. Si offre
pure di montarmi tutta la componentistica sul telaio, e
io ho accettato molto volentieri.
mi ci è voluto un intero anno per allestire la mia bici
riuscendo a contenere la spesa intorno ai duemila euro.
Spesso in quel periodo avevo dovuto tenere a freno la
mia irrequietezza, ma ero deciso a costruirmi una bici
leggera ed economica – come dire un paradosso, perché
nel mercato della bici da competizione il peso del mezzo
è inversamente proporzionale al prezzo, e quindi con il
diminuire del peso cresce il costo della bici stessa.
mio padre, che aveva capito le mie intenzioni, voleva
regalarmela lui: gli sarebbe bastato staccare un assegno
e in un’ora mi sarei trovato sotto il culo la bici dei miei
sogni. ma me ne sarei vergognato a morte. Pensavo a
Sirio, studente come me, che per comprarsi la bici ave-
va iniziato a lavorare il pomeriggio nel bar di sua zia
carmelina. Poi a maggio se n’era partito per Rimini do-
ve per quattro mesi aveva lavato piatti in un ristorante.
a ottobre aveva accumulato i soldi necessari e così se
ne tornò a casa. arrivato in paese, manco la doccia si
fa, corre subito al negozio ad acquistarla: una made in
Taiwan da dieci chili (pedali compresi) per soli quattro
milioni delle vecchie lire. mitico Sirio! lui ha sempre
interpretato la parte del ciclista puro, dolce e cocciuto.
è stato Sirio a far scoppiare la mia febbre per la bici-
cletta. Quel pomeriggio eravamo circa in dodici al bo-
schetto, seduti chi per terra chi sulla panchina a parlare
del più e del meno, quando da lontano si sentono le urla
di Sirio che, a cavallo del suo nuovo acquisto, procede
veloce verso di noi come la boccia verso i birilli. in un
attimo ci è addosso, e noi ci avviciniamo tutti ad ammi-
rare. una bici da cross country che profumava ancora
di nuovo. il telaio era verde con delle livree bianche, il
resto era tutto nero. conosco Sirio da quando siamo nati
ma così felice non lo avevo mai visto, sembrava un altro.
la sua gioia mi colpì: quell’ammasso di tubi saldati con
le ruote dentate su cui era poggiato doveva trasmettere
strane ebbrezze.
ben presto mi accorsi che quello non era un ammasso
di tubi ma un mezzo meccanico raffinato, dotato di mec-
canismi intelligenti capaci di ottimizzare le prestazioni
di un atleta in condizioni estreme. ogni gesto espresso
alla guida di una bicicletta mette in relazione diretta con
le leggi che regolano l’universo. attraverso il proprio
sforzo fisico, l’atleta conosce l’intensità delle forze na-
turali che gli si oppongono e questa cognizione è un
premio per il sudore versato. chi pedala, pedalerà sem-
pre contro. contro le forze di madre terra, che mescola
gli attriti regolati dalla fisica con gli umori di noi poveri
mortali.
le gambe girano e il terreno ti scivola sotto, mentre
il cervello è impegnato a scegliere le traiettorie, a dosare
le forze e a conservare lucidità. basta una folata di vento
contrario a scombussolare i tuoi piani, allora devi essere
pronto a calcolare e dosare nuovamente le tue forze. il
tuo nemico è l’attrito ed è presente ovunque, si confon-
de nell’aria, nel fango, sul terreno, finisce per usurarti. E
poi c’è la sabbia, che immancabilmente si insinua in tutti
i meccanismi che hai lubrificato con cura.
alcuni pensano che per far andare una bicicletta sia
sufficiente pigiare i piedi sui pedali. Nulla di più sbaglia-
to, è come pensare che per fare sesso si abbia bisogno
soltanto di una figa e di una minchia. a qualcuno forse
potrà pure bastare, ma non sa cosa si perde.
Trovare i soldi per comprare la bicicletta è rimasta per
molto tempo una delle cose più esaltanti che io abbia
mai fatto. Ho dovuto cercare un lavoretto, però, perché
non sapevo fare nulla all’infuori di studiare (o far finta di
studiare, quello mi riusciva ancora meglio). ma sapevo
usare il computer, e così, facendo leva sulla mia passione
per la grafica, ho iniziato a usare Photoshop, diventando
un vero esperto nel fotoritocco. me ne andavo in giro a
scattare foto in qualsiasi luogo e in qualsiasi situazione,
ai vecchi per strada, alle ragazze, agli ulivi nelle campa-
gne, al mare, al cesso di casa mia, ovunque.
Ho iniziato a fare foto con la reflex di zio maurizio,
che mi ha insegnato i fondamenti: la luce, la profondi-
tà di campo e le tecniche per inquadrare i soggetti. mi
piace ottenere foto sottoesposte, in cui il soggetto viene
toccato da un riflesso di luce necessario per distinguer-
lo dal buio. cerco la luce giusta per illuminare i profili
delle mie storie, perché ogni foto è una storia. i primi
scatti erano un po’ troppo minimalisti o dark, come di-
ceva mio zio, poi pian piano sono riuscito a catturare più
luce, a individuare la posizione migliore.
Fotografare non è solo una passione. Per me rappre-
senta una sorta di fuga: mi immergo in un mondo fanta-
stico ma allo stesso tempo reale. Qui riesco a cancellare
il mio peccato originale; qui lascio esposto al mondo il
mio lato più sensibile, quello represso che spesso mi fa
commuovere e mi lascia piangere di gioia in santa pace.
è stato zio maurizio a trovarmi il lavoretto di cui avevo
bisogno. Gli dissi che volevo comprarmi una mountain
bike da competizione, e lui in quattro e quattr’otto mi
fissò un appuntamento con il suo amico carlo per il sa-
bato successivo. l’agenzia in cui lavorava carlo si tro-
va nel centro storico di lecce, nei pressi della piazzetta
della chiesa Greca. Per raggiungerla si parte da Porta
Napoli e si percorre a piedi via Principi di Savoia, la
strada che porta proprio nel cuore del barocco leccese.
è una strada affollatissima, piena di studenti, bancarelle
senegalesi, pub, crêperie, botteghe artigianali e negozi
di ogni tipo, e dove si affacciano i balconi più belli di
questa parte del Sud italia. a metà strada c’è un’osteria
o putéa, come la chiamiamo noi salentini. Non c’è nes-
sun cartello o insegna luminosa che la indichi, ma per i
leccesi doc, quelli che parlano ancora il dialetto, la Putéa
de l’Angiulinu è un punto di riferimento. Per individuar-
la basta affidarsi al naso, seguendo il profumo di vino e
di sugo di carne di cavallo, messa a cuocere per ore ed
ore perché diventi tenera da masticare. il piatto tipico
della casa affonda le proprie radici nella notte dei tempi
e ci riporta alla mensa dei messapi: pezzetti e mieru, che
serviti in italia diventeranno spezzatino di cavallo e vino.
Se passi vicino alla porta della putéa e sposti la tenda
con un dito puoi intravedere il vecchio angiulinu che
gioca a scopa con assan, un ambulante senegalese sim-
paticissimo che parla il dialetto salentino meglio di un
vero leccese.
Quel sabato angiulinu stava perdendo la partita, lo si
capiva perché sbatteva le napoletane sul tavolo dando la
colpa al santo patrono. assan, invece, mostrando i suoi
denti bianchissimi, si sbellicava dalle risate dicendo ad
angiulinu di bestemmiare di meno se voleva vincere a
carte.
conosco bene la sua cucina e posso dire che non mi
ha mai deluso. Ho mangiato da lui in diverse occasioni
e ancora oggi è l’unico posto dove puoi prendere un
contorno, un secondo e una boccia di vino con appena
dieci euro.
Quando arrivai nella piazzetta della chiesa Greca,
vidi carlo sull’uscio dell’agenzia intento a sfogliare una
rivista e a fumare svogliatamente una sigaretta che gli
pendeva dalle labbra. Portava jeans neri, t-shirt nera,
scarpe nere e occhiali con montatura di osso nera. il
tipico abbigliamento dei creativi.
con carlo ho collaborato per quasi due anni. lavora-
vo il venerdì e il sabato, e la domenica sera spedivo tutto
il materiale in agenzia in modo che fosse disponibile per
il lunedì mattina. E così ho potuto comprarmi la bici.
ma soprattutto ho imparato a ricercare quel che carlo
definiva “fare tutto ad arte”.
l’ambiente di lavoro in cui mi ero inserito offre mol-
ti stimoli e in breve tempo ho cambiato il mio modo
di concepire il mondo. carlo, sin dalla fine degli anni
ottanta, ha lavorato per molti anni fuori dal Salento,
collezionando diversi successi. Si è formato progettando
fanzine nei centri sociali del Nord, all’epoca in cui per
impaginarle erano necessari una Polaroid, una macchi-
na da scrivere, un pennarello, una forbice o un taglieri-
no, un po’ di creatività e una macchina fotocopiatrice.
Quando arrivò a milano era poco più di un ragazzetto
senza un soldo in tasca. Ha dormito per un mese in un
sacco a pelo militare sul pavimento del leoncavallo, e
quando ne ha avuto abbastanza ha squattato una casa
nella zona dei Navigli.
all’epoca non sapevo neppure cosa significasse squat-
tare, ma carlo mi spiegò che si trattava di occupare un
edificio pubblico disabitato o inutilizzato. una provoca-
zione verso chi trascura i propri beni, liberare un luogo
dal disuso per restituirlo ai legittimi proprietari, e cioè
ai cittadini che innanzitutto ne hanno consentito la co-
struzione e ai loro figli, che oggi ne hanno una fottuta
necessità. E carlo era uno di quei figli.
occupare nasce dalla necessità di avere uno spazio a
costo zero, senza fini di lucro, dove chi ha voglia di dare
sfogo alle proprie passioni può finalmente contare su un
luogo fisico e su tanti coetanei spinti dalle stesse necessi-
tà. in queste aree sono nati e nascono laboratori di tutti
i tipi, dalle sale prove per concerti, ai teatri, ai corsi di
fotografia, d’informatica applicata all’open source e una
miriade di attività che normalmente dovrebbe fornire ogni scuola. Per questo carlo aveva okkupato. Per questo carlo colorò anche milano.